Popoli, Festa della Famiglia 2015
“Famiglia e lavoro, nella precarietà la speranza” è stato il tema della IV Festa diocesana della Famiglia che ieri si è svolta al palazzetto dello sport di Popoli. Oltre duecento coppie, con i figli, provenienti da ogni parte della diocesi di Sulmona-Valva hanno partecipato all'incontro aperto dagli interventi del vescovo monsignor Angelo Spina e del docente di Storia e filosofia, Giuseppe Savagnone, autore di numerosi saggi sul tema della famiglia e del lavoro.
Il vescovo, aprendo la festa, ha lanciato un appello alla politica locale perchè non resti sorda alle voci che salgono dal territorio e che chiedono impegno concreto per la soluzione del problema della disoccupazione e della precarietà che affligge numerosi giovani e famiglie. “A causa della mancanza di lavoro questo nostro territorio, ricco di bellezze paesaggistiche, di storia, di cultura, rischia la desertificazione – ha sottolineato il vescovo – in tanti paesi la popolazione prevalente è anziana e non c'è possibilità che nascano nuove famiglie perchè i giovani sono costretti ad andare via perchè qui non trovano lavoro”. Il vescovo dunque ha ricordato che la festa della famiglia vuole essere occasione per alimentare la speranza di tante famiglie e di tanti giovani e ribadire l'appello ai responsabili delle istituzioni civili affinchè non si lasci morire il territorio.
“Istituzioni e politica, tutti noi, non dobbiamo restare sordi alla voce che sale dal territorio e come comunità ecclesiale dobbiamo affidarci a Dio, sorgente sempre viva di speranza e amore”. Un saluto di benvenuto ai partecipanti al convegno e l'augurio di un buon lavoro è stato pronunciato dal parroco della comunità di Popoli, don Luigi Ferrari. “Oggi sperimentiamo tutta la bellezza della presenza del Risorto sentendoci Chiesa – ha detto don Luigi – il Concilio Vaticano II ha definito la famiglia chiesa domestica, oggi sono presenti tante chiese domestiche unite nell'unica Chiesa nella figura del vescovo, pastore della Chiesa diocesana”.
Dopo i saluti di Pietro Ciccarelli e Cettina Marzi, responsabili diocesani della Pastorale della famiglia, ha preso la parola il professore Savagnone. “Oltre ad una precarietà sociologica esiste una cultura della precarietà che si sostanzia in un atteggiamento interiore che dobbiamo cambiare – ha spiegato Savagnone – bisogna vivere il presente con un progetto ed un impegno per il futuro, altrimenti si cade nell'errore di vivere solo il presente, quasi come avveniva nel film “L'attimo fuggente” dove gli studenti vivevano solo il loro presente senza darsi pensiero del futuro”. In questa dimensione non si ha preoccupazione dell'impegno, della progettualità, dei bisogni del prossimo, manca senso di solidarietà e manca qualsiasi prospettiva. Per effetto di questo modo di pensare viene meno anche la concezione del lavoro come vocazione e come missione, propria del pensiero cristiano.
“Quando si pensa al lavoro si punta soltanto ad un'autorealizzazione – ha proseguito il professore – mentre perchè il lavoro realizzi davvero occorre trovare una sintesi tra desiderio di autorealizzazione e vocazione”. Il lavoro viene anche dalla capacità di cogliere i reali bisogni della società e di saper corrispondere attivamente ad essi. Una creatività intelligente che consenta di trovare nella stessa precarietà una risposta. Nella famiglia la precarietà è data invece dalla prevalenza dell'esigenza di autonomia dell'individuo, a danno della concezione del rapporto a due come costante dono reciproco. “Il dono di sé lega due persone e per una errata concezione della libertà si rifiutano legami” ha chiarito Savagnone. Invece la vera libertà è servizio ad una causa, è investimento per qualcosa, mentre conservare la libertà per sé stessi significa rendere questo valore sterile, non riuscendo ad andare oltre il mero interesse personale. Da qui la precarietà anche dei rapporti familiari.
“Ora la famiglia è in crisi ma sarebbe inutile invocare il ritorno ad un vecchio tipo di famiglia, quella conosciuta e per molti vissuta nel passato” ha sottolineato Savagnone. “I giovani oggi sono assai fragili – ha premesso il professore – ma l'emergenza educativa prima ancora che i giovani tocca gli adulti, che devono recuperare la capacità educativa verso i giovani”. Per Savagnone è indispensabile, in proposito, puntare su una morale delle virtù che prenda il posto sulla morale del dovere. “Bisogna instillare nei giovani l'aspirazione a desiderare e seguire certi obiettivi, non per il dovere fine a sé stesso ma perchè la realizzazione di quel desiderio rende felici”.
Lo scopo allora non diventa il dovere per la giustizia ma per la felicità cercata, come stato d'animo di chi fa cosa buona e non mira al mero piacere passeggero ed effimero. “I doveri poi sono in funzione di un desiderio, non validi per sé stessi” ha continuato Savagnone e a titolo di esempio ha ricordato che la stessa partecipazione alla santa messa domenicale isterilisce se diventa semplice adempimento di un dovere. E' invece fruttuosa se vissuta come convinta adesione ad un desiderio di bene. Non serve la mera osservanza di precetti. L'educazione alle regole discende da un'adesione profonda e consapevole a quel che si fa. Per concludere Savagnone ha portato l'esempio della differenza tra il puro e semplice adempimento del dovere come quello della marcia militare, tutta solo basata sulle regole e la danza di una coppia, dove i due partner che si fonda invece sulla morale delle virtù. La danza costa sacrificio e anche rischio ma l'uno e l'altro si sostengono a vicenda, per ballare unit e non cadere. Solo così la precarietà diventa fonte di speranza.
La giornata è proseguita con le testimonianze di esperienze di lavoro e famiglia, con l'imprenditrice Maria Assunta Rossi, l'imprenditore Cesarino Marrubbio e le promotrici del progetto Policoro, Alice Consolaro e Patrizia Giuliani. L'intrattenimento musicale è stato curato dal duo Pino e Antonello D'Agostino. Pino D'Agostino è stato anche autore dell'inno del convegno “Non lasciatevi rubare la speranza” che ha tratto spunto dalle parole di esortazione di Papa Francesco.
Il servizio catering offerto ai partecipanti al convegno è stato invece curato dalla Coselp di Pratola Peligna. L'incontro si è concluso nel tardo pomeriggio con la concelebrazione della Santa Messa, presieduta dal vescovo Spina, con i sacerdoti della diocesi. Un saluto al convegno è stato portato anche dal sindaco di Popoli, Concezio Galli, che ha ricordato l'enorme importanza ed il valore essenziale dell'istituzione famiglia, soprattutto in tempi di crisi, dove la famiglia rappresenta un efficace scudo protettivo e di sicura solidarietà, mentre sempre più spesso gli stessi amministratori locali avvertono il peso della distanza della politica nazionale e delle istituzioni dai bisogni reali dei cittadini.
“Conosco il peso delle parole, quelle che muovono le tombe e le fanno alzare in piedi”
Il professor Savagnone parla: dal palco, montato per l’occasione nell’accogliente Palazzetto dello sport di Popoli, le parole scivolano sulla platea attenta. Il suo timbro siciliano contribuisce a far trasparire convinzioni forti, che trascinano sotto la scia di una solida credibilità. Convince e trascina il professor Savagnone, ricarica le pile “stanche” di chi osserva una società spenta, naufragante nella difficoltà di trovare una vera dimensione in una fase storico-culturale di passaggio.
Siamo felici di aver potuto, anche quest’anno, cogliere l’opportunità che ci viene data con la Festa Diocesana della Famiglia. Non è solo una festa: è un’occasione dalle mille sfaccettature ed ogni partecipante lo percepisce perché, ogni anno, va via dalla festa “ più contento e migliore”.
Abbiamo potuto ascoltare solo nelle ultime battute la relazione del professor Giuseppe Savagnone, docente palermitano di storia e filosofia, dirigente del centro diocesano per la pastorale della cultura di Palermo, già direttore dell’Ufficio regionale per la cultura, l’educazione e la scuola della CESi ( Conferenza Episcopale Siciliana ), editorialista dei quotidiani “Avvenire” e “ Giornale di Sicilia”, curatore della rubrica “Vangelo, cultura e vita” per Radio Maria… eppure le sue parole hanno colpito nel segno. Quale forza attrattiva possono avere le parole ….” Quelle che muovono le bare e le fanno alzare in piedi”!!
Più di ogni cosa abbiamo condiviso la sua analisi economica. Che il sistema capitalistico nel quale viviamo contenga in se’ dei germi mortiferi, che il dogma sacrificale del profitto abbia contribuito all’abbattimento dei valori sociali, che nella visione consumistica l’Uomo scompare e prenda il suo posto il manovrabile Consumatore… queste riflessioni le avevamo già maturate ma….. sentir ribadire forte che il sistema economico di un paese è frutto della cultura di quel paese e che quindi si può incidere su di esso cercando di affrontare le derive perverse che può prendere, cercando di impegnarci coerentemente esercitando un consumo critico….bè questo ci ha sollecitati tanto e ci ha fatto sentire coinvolti in prima linea: ci ha fatto sentire r e s p o n s a b i l i e quindi abili ad agire per cambiare il nostro futuro. Facendo un paragone, come nel settore radiotelevisivo la tv pattumiera è in realtà a servizio dello share e risponde alla bassa domanda dei telespettatori, per cui semplicemente manovrando coerentemente i nostri telecomandi potremmo condizionare e cambiare le scelte dei palinsesti televisivi, così in un mercato basato sull’incontro della domanda e dell’offerta, la nostra domanda potrebbe orientare eticamente l’offerta. Scegliendo bene i prodotti e privilegiando imprese rispettose delle leggi e dei principi che tutelano l’Uomo e l’ambiente ed al contrario, contraendo la domanda di beni prodotti utilizzando manodopera sottopagata o minorile ecc, potremmo cambiare il volto del nostro mercato e di tutto un sistema economico. Ciò che portiamo con noi del bell’intervento del prof. Savagnone è l’entusiasmo rinnovato dalla consapevolezza che “ il mercato non è un meccanismo spietato ed immutabile” ma che dipende da noi stabilirne regole più umane ed eticamente accettabili.
Che forza hanno le parole!!!!! Davvero c’è da sperare se “ riescono a muovere anche le bare e farle alzare in piedi”
PANTA REI (tutto è in continuo mutamento)
Nella giornata di sabato 25 aprile u.s., presso la soleggiata e storica cittadina di Popoli, si è svolta la IV Festa Diocesana della Famiglia, incentrata sul tema “ Famiglia e Lavoro: nella precarietà la speranza”.
La relazione è stata tenuta dal prof. Giuseppe Savagnone, docente di Dottrina Sociale della Chiesa presso il Dipartimento di Giurisprudenza della Lumsa di Palermo, il quale con sapiente pacatezza ha posto l’accento su alcune criticità presenti sia nell’ambito familiare che in quello lavorativo. Ha sottolineato, in particolare, i pericoli della cultura della precarietà, i cui cascami ci consegnano una società avviticchiata sul presente, “sull’attimo fuggente”, priva sia di un passato che di un futuro, nella quale contano esclusivamente l’autorealizzazione ed il piacere individuale. In un simile contesto, il lavoro cessa di essere uno strumento di “missionarietà” ed un modo per mettere in pratica le proprie capacità psico-fisiche in vista del soddisfacimento di bisogni e di aspettative altrui. Anche la famiglia, quindi, diventa vittima di una costruzione culturale particolarmente artificiosa perché in una società libertaria i legami sono visti solo come legacci che impediscono l’esaltazione dell’io.
Ebbene si, la famiglia, questa cellula primigenia della società che la Carta Fondamentale della nostra Repubblica riconosce come società naturale fondata sul matrimonio, negli ultimi decenni è stata costretta a subire bistrattamenti di ogni sorta. I soggetti demandati ad “occuparsi” del bene comune hanno provato in tutti i modi a disgregarla, ad isolarla da ogni contesto, perché chi detta le linee del pensiero unico preferisce avere di fronte a sè dei sudditi, se non delle marionette, e no di certo gruppi coesi e pensanti che esprimono una loro precisa identità.
Per fortuna, però, i “buoni” malpensanti non sono riusciti nei loro intenti. La famiglia è ancora viva e vitale in quanto essa non rappresenta solo una naturalis socìetas ma è una creatura su cui Dio ha investito gran parte della Sua provvidenza e anche quando subisce terribili scossoni, la sua resilienza la conserva salda e propositiva.
Con la complicità di una maggioranza negligentemente silenziosa, pochi manipoli di laicisti agguerriti hanno creato una società rutilante e al contempo gelatinosa, che attrae a sé esaltando l’effimero e stimolando l’edonismo individuale, ma che non ti da punti di riferimento e non ti consente di aggrapparti a nulla di concreto perché il mondo budinoso non ha radici solide e non offre approdi. Molti cadono in questa trappola ma la famiglia fondata sulla roccia non si fa abbindolare dal canto delle sirene e resiste alle procelle del momento perché ha basi solide che poggiano sui valori più profondi dell’essere umano, inteso non come la semplice somma di carne, ossa e sangue, ma come una creatura nata a immagine e somiglianza di Dio. La famiglia non è un vaso di coccio, ma un alvo materno che ti avvolge, ti protegge, ti tutela, un luogo in cui non trionfano gli individui ma le relazioni stabili e durature. Volendo mutuare un gergo lavoristico si può tranquillamente affermare che all’interno della “chiesa domestica” si sviluppano rapporti full time e a tempo indeterminato e che in tali opifici di comunione la ricchezza prodotta non si misura in denaro ma in amore, la cui crescita è direttamente proporzionata all’intensità e alla durata dei rapporti stessi.
Da qualche anno un ulteriore spauracchio viene utilizzato per rendere ancora più vulnerabile la cellula primigenia della società: la precarietà del lavoro. Come se in Italia ( ed in particolare nel meridione ) avessimo sempre vissuto pasteggiando a caviale e champagne. Forse la nostra mente è troppo confusa per ricordare che fino a qualche decennio scorso decine di migliaia di nostri connazionali erano costretti a migrare in terre lontane per cercare di che vivere. In tanti, proprio dall’Abruzzo, sono partiti non per raggiungere luoghi dove scorrevano latte e miele ma per guadagnarsi un tozzo di pane nelle miniere del Belgio, dalle quali molti non hanno fatto ritorno ed altri ancora hanno scontato sui loro polmoni lo stigma della silicosi. I nostri tempi, quindi, sono forse peggiori di quelli ? Se la risposta ( come penso ) è no, perché allora la famiglia, un tempo salda, dovrebbe oggi cadere sotto i colpi della più modesta precarietà contemporanea ?
Ed è qui che tornano preziose le parole acutamente spese dal prof. Savagnone allorquando afferma che è la cultura della precarietà ad uccidere la speranza e non la precarietà sociologica o lavorativa a farlo.
Ogni epoca ha conosciuto e pronunciato motti del tipo “o tempora, o mores”, di Ciceroniana memoria, o ha generato società ostili all’uomo e alla famiglia; non per nulla l’apostolo dei Gentili, poco dopo la morte di Cristo, nella Lettera ai Romani specificava che un cristiano, per non essere travolto dal mondo esterno, doveva essere diverso da un pagano e ciò lo si doveva notare. Secondo Paolo, il cristiano doveva subire un processo di 'trasformazione' rinnovando la sua stessa "mente" in guisa che lo scopo della vita, la mentalità, e gli interessi, una volta cristiano, non dovessero e non potessero essere più gli stessi. Un cristiano doveva essere 'diverso' in forza di un 'processo' di cambiamento radicale tale da modificare la sua stessa "essenza".
A ben ragionare, infatti, la precarietà dovrebbe essere vista solo come un sovvertimento delle formule statiche cui eravamo abituati, una sorta di panta rei che spinge l’uomo ad ingegnarsi per vivere proattivamente, per tirare fuori dal proprio cilindro esperienziale qualcosa di nuovo, di diverso, di non già catalogato negli schemi conosciuti. La morte del c.d. posto fisso ( o per parallelismo la fine del dominium del pater familias ) non può e non deve risuonare per l’uomo come un de profundis personale ma deve valere come un potente pungolo a far emergere il proprio pneuma, cioè quel soffio vitale in grado di trasformare la mestizia in gioia, il lassismo in dinamismo e l’inerzia in creatività.
E’ inutile lottare per tenere in piedi ciò che è anacronistico, è vacuo battersi per la riproposizione di modelli che sarebbe addirittura opportuno non far rinascere. Il senso di impotenza dato dall’impossibilità di realizzarsi in un’occupazione, non può cancellare lo slancio relazionale della persona, né soffocarne la mente, né impavidirne il corpo.
Precarietà e crisi vengono quasi sempre usati come sinonimo e allora perché non approfondirne il significato etimologico per capire se, anche a livello semantico, c’è una via d’uscita ?
La parola crisi deriva dal verbo greco krino che vuol dire “separare”, “scegliere”. Trattasi pertanto di un concetto che esprime un dualismo semantico che rimanda a un discernimento che sta a noi cogliere. Nel campo medico, ad esempio, il termine indica il violento e improvviso cambiamento, in senso favorevole, che avviene in una malattia. Secondo Jeffrey J. Davis, l’Amministratore Delegato di un’importante azienda americana, poi, ogni crisi è come una moneta: da una parte porta con se il pericolo, dall’altra le opportunità. Basta capovolgere la moneta per non perdere l’opportunità di emergere più forti e più intelligenti”. Le nuove sfide spaventano sempre perché destrutturano, costringono a resettare ma poi, passo dopo passo, diventano familiari e ci aprono al cambiamento, ci spingono a sperimentare cose nuove, a reinventare e riorganizzare il lavoro meglio e più efficacemente di prima. E poi, non sarà forse il caso di riflettere anche sull’importanza che la società contemporanea attribuisce al lavoro ?
Partendo dalla celebre frase del poeta Orazio, beatus ille qui procul negotiis, ut prisca gens mortalium, si comprende come il concetto di lavoro abbia rappresentato nel corso dei secoli un dato assolutamente mutevole ed in continua definizione. Si è passati da un mondo primitivo in cui l’attività di produzione coincideva con l’attività di riproduzione dell’individuo ed il tempo di lavoro era tempo di vita, ad un mondo moderno in cui il lavoro si è trasformato in connotato identitario, in “mostro” capace di inghiottire tutta la vita dell’individuo, in uno strumento capace di dare, in via esclusiva, un senso alla vita umana. In tale ottica non avere un lavoro o perdere il lavoro equivale a perdere qualcosa di se, la propria identità sociale. Non c’è felicità senza lavoro. Una simile distorta costruzione rimanda pericolosamente a quella nefanda scritta ARBEIT MACHT FREI / il lavoro rende liberi / che campeggiava sul cancello d’ingresso del campo di sterminio di Auschwitz e che secondo lo scellerato criminale nazista Rudolf Hoss doveva servire come monito per la purificazione degli uomini in quanto la fatica del lavoro manuale avrebbe ripulito gli stessi da ogni fallacia mentale ed esistenziale, consentendogli il pieno reinserimento sociale.
Nulla di più tenebroso e macabro.
Orbene, se è di certo anacronistico oltre che sciocco pensare alla reviviscenza di un sistema economico basato sui ritmi biologici degli esseri viventi, del pari assurdo e stolido è far coincidere il lavoro con l’essenza stessa dell’agire umano. Al lavoro va data la giusta importanza, ma l’essenza della vita dell’uomo riposa decisamente altrove.
Con l’arguzia e la profondità che lo hanno sempre caratterizzato, Giovanni Paolo II, anticipando le linee del concetto moderno di work life balance, nell’enciclica “Laborem Exercens” affermava che il lavoro “è la condizione per rendere possibile la fondazione di una famiglia” ma sottolineava la necessità di una corretta e costante permeazione tra questi ambiti valoriali mentre nella “Centesimus Annus” evidenziava che “la persona e la società non hanno bisogno solo di beni materiali, ma di valori spirituali e religiosi”.
IN QUESTE PAROLE PRONUNCIATE DAL PAPA SANTO RISIEDE PERTANTO LA SPERANZA.
Per puntare in alto c’è dunque bisogno di coraggio, di volontà, di determinazione, di speranza.
Prima di essere lavoratori, infatti, siamo padri, madri, figli, amici, siamo parte di un tutto relazionale che esiste e prospera a prescindere dalla produzione di beni materiali, siamo una fonte di affettività inesauribile, siamo sostegno morale per il vicino, siamo vincastro per gli anziani, siamo un approdo per gli amici, siamo amore per il coniuge, siamo speranza per le generazioni che ci hanno preceduto, siamo luce e guida per i figli, siamo sale della terra, siamo esseri irripetibili, siamo riflesso dell’Amore di Dio, siamo figli di Dio.